C’è ancora domani. Il film di Paola Cortellesi.
Sono le 22.30 di una fredda sera d’autunno. La saletta è piccola e gremita, esattamente come lo spettacolo delle nove ma in una sala più grande. È il 25 Novembre, nemmeno a farlo apposta, e non lo si poteva onorare in modo migliore.
Quando si esce dalla sala, una volta finito il film, si ha la sensazione di aver visto potenzialmente la pellicola più bella dell’anno- ormai siamo a Novembre, si possono anche tirare le somme.
“C’è ancora domani” è un film che racconta di donne, diretto da una regista donna, che tratta temi più che mai attuali (purtroppo) che vedono protagoniste le donne.
Ci troviamo nel secondo dopo guerra. L’Italia accetta la presenza degli americani (poco può farci) e cerca di rialzarsi dopo la disfatta.
La protagonista è Delia. Moglie e madre che spesso si dimentica di essere donna. Ivano è un marito violento, i due figli più piccoli assomigliano sempre più all’esempio maschile che hanno in casa e Marcella, la figlia più grande, guarda con orrore le brutture della vita quotidiana.
Delia mantiene l’equilibrio familiare. Un po’ capro espiatorio, un po’ massaia ed instancabile lavoratrice divide le sue giornate tra un lavoretto e l’altro. Dalle punture al bucato, dal rammendo delle calze alla produzione di ombrelli. È instancabile Delia. Sempre testa bassa, sempre pronta a soddisfare le esigenze della famiglia, rassegnata ad una vita familiare piena di dolore. Perché quando giunge la sera, quando rompe un piatto o quando brucia la cena Ivano si alza, i figli vanno in camera e comincia la danza dei dolori quotidiani fatti di botte e percosse. Non c’è il perdono, la comprensione o la stanchezza. C’è solo l’errore e Delia paga per tutti, anche quando non ha colpe.
“Non ce devi anna’ più a lavora’”
“E chi t’ha detto?”
“Te lo dico io, tu sei mia”
Paola Cortellesi, nel ruolo di regista, ci regala un film carico di tante emozioni: delusione, tristezza, speranza e tanta, tantissima rabbia. Attraverso gli occhi di Delia e di Marcella vediamo due generazioni diverse vivere gli stessi problemi.
In certi contesti storici non dev’essere stato facile essere donna. E nel nostro, di contesto storico, mi chiedo?
Paola Cortellesi, con il personaggio di Delia, ci racconta le battaglie silenziose compiute all’interno delle mura domestiche. Le battaglie fatte a furia di risposte, di silenzi e sottomissione per un bene più grande.
Con una velata ironia, battuta dopo battuta in un dialetto romano comprensibile e piacevole Paola Cortellesi e un bravissimo Valerio Mastandrea (nei panni di Ivano) ci raccontano la vita della famiglia media della prima metà del novecento. Quando una donna non poteva esprimere la sua opinione, figurarsi andare a votare. Quella però non era la convinzione solo di chi veniva da una famiglia di “poracci” (passatemi il termine), anche chi si era arricchito durante la guerra la pensava esattamente allo stesso modo.
Interamente in bianco e nero, forse per rimarcare la realtà retrograda nel quale è ambientato, il film non stanca e non si avverte la mancanza di colori per una generazione abituata a luci e ad immagini cristalline.
La scena più bella per me è racchiusa nel finale che mi ha sorpreso. Mi aspettavo una cosa ed invece mi sono trovata di fronte tutt’altro. Ho sorriso, mi sono commossa e ho scosso la testa. In quei cinque minuti finali mi sono ricordata perché è importante lottare per ciò in cui crediamo. Perché davanti ad un ideale comune tutti siamo uguali. Giovani, vecchi, ricchi o poveri. È la potenza delle idee che può cambiare il mondo.
“Stringete le schede come fossero biglietti d’amore”
E d’ora in poi quella scheda elettorale la stringerò con ancora più forza, con ancora più orgoglio. Lo stesso orgoglio delle donne che mi hanno preceduto. Quelle donne che si sono tolte il rossetto per chiudere la scheda ed evitare che venisse annullata. Per quelle donne che, attraverso un voto, hanno trovato la loro voce. La libertà.
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